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Social Media Fail Marketing

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Nel 2013 il #fail sui social media può essere considerato uno strumento strategico per i brand, perché aumenta l’awareness e garantisce un boost di partecipazione. Ma fail indica un errore, uno scivolone, qualcosa che naturalmente non gioverebbe a chi lo sta compiendo. Tuttavia uno degli effetti collaterali del commettere errori è la visibilità che si ottiene, perché tutti vogliono correre per essere i primi a fartelo notare. Questo cosa significa in ambito social? Interazione.

In qualche modo questo approccio può essere considerato come uno spin-off di “bene o male, l’importante è che se ne parli”, infatti più tipicamente se ne parla male, anche se tra gli addetti ai lavori e gli utenti smaliziati si è fatta strada da tempo la consapevolezza dell’uso strumentale di questo meccanismo.

È arrivato il momento degli esempi. Il mio preferito è il Pedobear di Kit Kat (l’immagine la vedete in alto all’inizio dell’articolo):

Questa vicenda risale al luglio 2012, quando Kit Kat usò questo scatto per lanciare il suo nuovo profilo Instagram, ottenendo tantissima attenzione in effetti, ma per il fatto di aver scelto “qualcosa legato alla pedofilia” in relazione al brand.
Secondo voi, l’obiettivo è stato raggiunto?

L’unico caso in cui l’obiettivo non può considerarsi raggiunto forse riguarda il sentiment dei commenti generati in proposito.

Un altro caso interessante è quello legato alla campagna di Shell, Arctic Ready, dove il brand si prodiga per esporre come le trivellazioni artiche possano portare benefici per il pianeta e l’ecosistema. Il vero protagonista però è stato Greenpeace, che con la sua contro-campagna di trollaggio mirato ha costruito un sito copia di Arctic Ready, dove gli utenti potevano comporre immagini di campagna simili a quelle di Shell, ma con messaggi pro-ambiente votati al sarcasmo. Il risultato? Qualche esempio di seguito.

Fonte: Articready.com

 

Fonte: Articready.com

L’iniziativa è proseguita tramite il boost del profilo Twitter creato ad hoc e ormai sospeso @ShellisPrepared, creato di proposito per essere scambiato per un account ufficiale del marchio. Il pubblico ha interpretato questa iniziativa virale di guerriglia comunicativa come un fail del brand in principio, aumentando esponenzialmente la diffusione attraverso i social media. Davanti alla scoperta della verità le reazioni sono state diverse, l’audience si è divisa tra quelli che si sono sentiti raggirati e coloro che l’hanno reputata una mossa brillante. Certo è che questo fail procurato abbia raggiunto i risultati auspicati.

Anche in Italia iniziano a sorgere casi di Social Media Fail Marketing riconoscibili come tali. Uno potreste averlo visto sul Duomo di Milano, oltre che su Facebook. Un altro fautore di questo approccio è un brand che produce latticini, oltre che campagne pubblicitarie con riferimenti sessuali espliciti. È addirittura nata una pagina Facebook che raccoglie molti di questi exploit: Social Media Epic Fails.

Purtroppo questi fail non sempre raccolgono il risultato auspicato, infatti molti dei casi italiani non conducono affatto all’awareness generata per Kit Kat. La domanda da porsi è questa: è giusto per un brand compromettere la propria reputazione nella speranza di fare il botto? Dipende dalla qualità, dalla bassezza e da quanto sia cheap il fail su cui si ha intenzione di puntare.

Ora raccontateci la vostra opinione: per voi questo approccio ha un futuro?

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