Site icon IAKI

Gli spot ai tempi del Covid: come (non) differenziarsi

IAKI - Spot Covid

Dall’inizio della pandemia sono cambiate indubbiamente molte cose, tanto per i consumatori quanto per i brand. I primi hanno stravolto le loro abitudini, mentre i secondi si sono dovuti reinventare, adattandosi alle esigenze del periodo.

I brand si sono dunque trovati di fronte ad una scelta comunicativa, chiedendosi se i messaggi pubblicitari durante la pandemia potessero infastidire o, al contrario, permettere agli utenti un’evasione momentanea dalla difficile situazione, fornendo loro il supporto di cui avevano bisogno.

Ogni brand si è dunque trovato di fronte ad un bivio a tre strade:

Il format

Focalizzandosi sui brand che hanno realizzato i cosiddetti “spot Covid” con l’obiettivo di dimostrare vicinanza ai propri consumatori, non possiamo fare a meno di notare che quasi tutti sono accomunati da un format standard. Una serie di keyword che si ripetono come un mantra.

Non l’avete notato? Guardate il video qua sotto, realizzato da Sean Haney, youtuber e digital marketer americano:

Quindi ricapitolando, gli elementi in comune sono:

Alcuni dei brand del video in questione sono Apple, Budweiser, Fedex, Heineken, Facebook, Nissan, Toyota, Ford, Edison, Indeed, Enterprise, Uber, Dunkin Donuts, Samsung, Google, Mastercard. I business più disparati uniti sotto un unico schema strategico comunicativo.

Il filone comunicativo degli spot Covid

La domanda sorge spontanea: il filone comunicativo comune che hanno seguito tutti questi brand ha avuto effettivamente un riscontro positivo in termini di brand reputation? Oppure questo “appiattimento collettivo di marca” è stato visto come mancanza di autenticità e sincerità?

È indubbio che fare appello al senso di unità sociale (latente o meno) in ognuno di noi sia cosa buona e giusta; lo conferma la storia.

Mesi dopo l’attentato alle Twin Towers del 2001, l’American Airlines tornò in TV con uno spot molto carico dal punto di vista emotivo. Lo spot ebbe successo, soprattutto grazie al fatto che dopo il terribile accaduto era emerso che il 68% degli americani si sentiva più orgoglioso di prima della propria nazione.

In quell’occasione, tuttavia, era solo un brand a comunicare. Durante la pandemia, invece, sono stati molti brand ad aderire ad un unico tono comunicativo, con il rischio di anestetizzare i consumatori ed ottenere un’immunità di gregge di tipo cognitivo, laddove uno spot vale l’altro e gli utenti non ricordano un brand in particolare.

Il “guaio” nasce proprio dal fatto che tutti gli spot sono intercambiabili tra di loro; non importa se sia una marca di macchine o un brand produttore di pasta, la narrazione è la stessa. Il copy è lo stesso.

Il mood patinato con immagini in slow motion e una voce narrante profonda e grave danno vita ad una creatività melensa e ricca di cliché che forse solo Nike e pochi altri brand possono permettersi senza scadere nel banale.

Il motivo? Una coerenza solida tra il mood degli spot e la brand identity. Detto in soldoni, gli spot della Nike si riconoscono (ed emozionano) perché Nike si è appropriata negli anni di una comunicazione che si basa su valori come la determinazione, il comeback emozionante, il never give up e le sfide che “non fanno piangere, fanno solo entrare una sneaker nell’occhio”.

La situazione unica che abbiamo vissuto ha portato dunque i brand a confrontarsi in un terreno nuovo e sconosciuto. Nessuno aveva un libretto delle istruzioni su “come creare campagne pubblicitarie durante una pandemia globale” e l’urgenza di esprimere in qualche modo la vicinanza nei confronti dei propri consumatori, piuttosto che optare per un assordante silenzio, ha lasciato poco spazio all’originalità.

Ma la scelta di appiattirsi su una sceneggiatura pubblicitaria trita e ritrita è stata obbligata da questa situazione più unica che rara? Oppure era possibile sfuggire agli spot Covid con uno sforzo creativo in più?

Ma soprattutto: chi ha giocato meglio le sue carte?

Come si suol dire, ai posteri l’ardua sentenza.

Exit mobile version