In un contesto globale in cui gran parte delle testate e dei network non possono investire su risorse dedicate esclusivamente a inchieste, reportage e corrispondenza dall’estero, è importante riflettere sulle possibili vie di uscita, per un’evoluzione verso un giornalismo migliore, sostenibile e che non perda di vista il suo obiettivo, quello di fare informazione. Informazione utile, talvolta scomoda. È in questo contesto che entra in gioco il data journalism, il giornalismo basato sui dati.

Il calendario del Festival del Giornalismo gli ha dedicato un ampio spazio, con la seconda edizione della School of Data Journalism, che comprende panel discussion e workshop pratici, miniere di consigli utili non solo per i giornalisti ma per tutte le figure professionali che lavorano con piccole e grandi moli di dati.

Chi fa data journalism?

Prevalentemente freelance o giornalisti appartenenti a grandi reti locali e internazionali come Data Driven Journalism o la Open Knowledge Foundation: per fare data journalism è importante creare un ecosistema di contatti, una sinergia di competenze diverse e sapere a chi rivolgersi per chiedere fondi, ad esempio all’European Journalism Centre per inchieste e reportage a tema sviluppo.

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti ci sono casi eccellenti di progetti di data journalism e data visualization. Parliamo soprattutto degli articoli in stile Snow Fall del New York Times (che ha appena lanciato, a proposito di dati, Upshot), del datablog del Guardian e di ProPublica.

Cosa succede nel resto del mondo?

Il data journalism non esiste soltanto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, anche se i media di questi due Paesi investono di più, anche con risorse interne dedicate, su questo tipo di contenuti. America Latina, Africa, Italia, Spagna, Svizzera, Francia, tra gli altri, regalano molte sorprese e casi di successo: l’africano GotToVote, sviluppato nell’ottica di una maggiore trasparenza e completezza di informazioni su elezioni e seggi elettorali in Kenya e Chicas Poderosas, pensato per coinvolgere ed educare sempre più donne latino-americane alla tecnologia e ai tool per diventare hacker o data journalists, sono in questo senso due esempi virtuosi.

In Italia non ci sono molti investimenti in questo settore, ma qualcosa sta cambiando. Fondazione Ahref organizza corsi e collabora con le associazioni più importanti dedicate a OpenData, whistleblowing e trasparenza e accessibilità dei dati. I media tradizionali stanno riservando uno spazio sempre maggiore al data journalism, ma i progetti sono per lo più comprati da freelance che hanno sviluppato il progetto indipendentemente dalla testata.

Come già detto, l’importante è fare rete. Continuare a far vivere il settore attraverso siti dedicati, training, mailing list, scuole e progetti partecipativi. Tutto questo ci riporta ad una riflessione più ampia e molto rilevante per il mondo dell’informazione: il data journalism è soprattutto giornalismo. I dati sono uno strumento, un mezzo per rappresentare meglio una storia, che è il punto centrale di ogni progetto basato sui dati. È importante non farsi prendere dalla “mappite”, per prendere in prestito le parole di Elisabetta Tola di Formica Blu: la visualizzazione dei dati non è sufficiente, senza una profonda comprensione di quello che rappresentano e della storia che si vuole raccontare.

Il giornalismo ha bisogno di grandi storie e il data journalism per ora sembra la strada migliore per continuare a raccontarle.

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